Whooo, I’m going to Barbados! In un motivetto degli anni ’70 un improbabile capitano Wilcock dava il benvenuto a bordo del volo 371 della Coconut Airways; back to the palm trees…in the sunny Caribbean sea, continuava poi il ritornello. Una di quelle canzoncine che sanno tanto di tropico felice. In effetti, a Barbados la vita scorre tranquilla: l’isola ha una delle economie più floride della regione e una stabilità politica e sociale da fare invidia a molti altri paesi caraibici.
Barbados emerge dal mare 160 km ad est dell’arco insulare formato dalle Piccole Antille, là dove finiscono i Caraibi e comincia l’Atlantico. A differenza di gran parte delle sue sorelle caraibiche, è un’isola quasi interamente pianeggiante e di origine corallina.
La costa orientale è una lunga terrazza affacciata sull’oceano. Tra qui e l’Africa non ci sono terre emerse e le onde, dopo una corsa di migliaia di chilometri, s’infrangono maestose sul litorale, sgretolando falesie e modellando magnifiche spiagge, spesso deserte. Ad evocare questo paesaggio un solo nome: Bathsheba, il regno dei surfisti, perché è qui che si forma l’onda migliore dei Caraibi.
Lungo le strette strade che si arrampicano sulle colline costeggiando il litorale spuntano qua e là piccole case in legno dalle facciate sgargianti, con gli intagli sui portici e i basamenti cavi per far passare l’aria; nei punti in cui la vegetazione è un po’ meno esuberante, si aprono affacci panoramici selvaggi, quasi struggenti. Pochi i turisti sul lato atlantico di Barbados, qui si viene solo per vedere lo spettacolo e poi via dall’altra parte.
Versante opposto, scenario opposto: il mare ha incontrato la barriera corallina prima di arrivare a lambire, questa volta con un’onda gentile, le spiagge piene di turisti stesi al sole. La sabbia bianca e fina come il borotalco, il mare dalle mille sfumature di turchese e i tramonti infuocati sono gli ingredienti da vacanza tropicale che questo lato dell’isola non si fa mancare. Il tutto però è condito da un’eccessiva urbanizzazione della costa, che ha lasciato ben pochi spazi liberi dal cemento.
Una fila ininterrotta di alberghi a molte stelle, residence vistosi e ville miliardarie, che occhieggiano dietro gli ingressi sorvegliati, nasconde la vista del mare a chi percorre la litoranea. In cambio però i turisti possono avere tutto a portata di mano, servizi eccellenti, negozi griffati, centri sportivi e ristoranti dove, specie di sera, vige un rigido dress code.
La piccola Inghilterra dei Caraibi, è così che la chiamano Barbados. Ma non bisogna fidarsi troppo. Lo stile di vita bajan è molto poco british e l’atmosfera è decisamente afrocaraibica.
E’ vero, la corona inglese ha regnato per trecento anni consecutivi su queste terre e qualche testimonianza della sua ingombrante presenza doveva pure lasciarla.
Nel centro di Bridgetown, ad esempio, c’è una piccola città nella città che si è da poco meritata il riconoscimento dall’Unesco di patrimonio mondiale dell’umanità: Historic Bridgetown and its Garrison. Parliamo di un’area che comprende il vecchio nucleo cittadino, i suoi edifici storici e la sua torre risalente al 17esimo secolo, e l’antico presidio militare con tanto di cannoni puntati verso il mare. L’orgoglio britannico sprizza da tutti i pori.
Barbados era l’avamposto atlantico di un impero coloniale che dai possedimenti caraibici, le Indie occidentali, si estendeva alle colonie americane, e che poi si allargò con l’annessione di molte terre asiatiche.
Le navi inglesi presero senza fatica possesso dell’isola, che era stata ignorata, forse per la posizione geografica, dagli esploratori portoghesi; pochi decenni dopo quel territorio baciato dal sole e privo di rilievi montuosi era completamente tappezzato di campi di canna e punteggiato da centinaia di mulini.
Grazie allo zucchero e ad un esercito di schiavi trascinati qui in catene dai mercanti inglesi Barbados divenne, tra il seicento e l’ottocento, una delle isole più potenti dei Caraibi. A tenere i collegamenti con Bristol ci pensava il florido porto di Speightstown; oggi questa cittadina, dall’aspetto tropicale e l’aria sonnacchiosa, non ricorda quasi nulla del suo ricco passato, ma è forse uno dei posti più piacevoli di tutta l’isola.
Quando con l’abolizione della schiavitù l’epoca d’oro finì, Barbados non smise mai di produrre zucchero. E nemmeno ha mai smesso di produrre il suo rum, considerato da molti estimatori il migliore al mondo.
Un giro per le distillerie è, come si dice, un must.
Cominciando dalle colline di St. Nicholas Abbey, una piantagione ancora in attività che usa metodi tradizionali per produrre piccole quantità di pregiato rum caraibico. La casa padronale risalente al 1658, perfettamente restaurata e con i suoi arredi originali e i magnifici giardini, è un luogo incantato, un mondo a sé che fa dimenticare le fosche pagine di storia legate all’epoca coloniale.
Il giro delle distillerie di Barbados si conclude trionfalmente nelle stanze degli alambicchi della Mount Gay, azienda che vanta una storia di trecento e più anni e che produce rum esportato in tutto il mondo. E’ una delle etichette più popolari, anche a Barbados, dove di rum se ne consuma parecchio. Ma è non la sola; per rendersi conto di quanto ampia sia la scelta, basta entrare in un rum shop.
I rum shop sono locali a metà tra un bar e una drogheria di paese, che si dividono in due categorie, rustici o molto rustici; qui c’è sempre qualcuno che beve un goccetto, chiacchiera e gioca a domino con gli amici o guarda una partita di cricket in tv. Il rum shop è un’istituzione sull’isola di Barbados almeno quanto lo è il rum. Ma non venite qui a chiedere un rum punch, con cannuccia e ombrellino colorato. Quello è roba da costa occidentale.